Lagambiente: “No alle trivellazionipetrolifere”

In occasione della discussione, nel Consiglio comunale del 4 novembre, della delibera di Giunta comunale avverso alle trivellazioni petrolifera , Vi inviamo un nostro contributo che speriamo possa essere utili al dibattito.

Da qualche anno non accenna a fermarsi la corsa al petrolio in Italia e i pirati dell’oro nero minacciano sempre di più i mari italiani. Nei mari del Belpaese sono già attive 9 piattaforme di estrazione petrolifera di cui 5 in Sicilia ma, grazie ai colpi di spugna normativi, a partire da quello previsto dal decreto Sviluppo promosso dal ministro Corrado Passera, e interventi come l’art. 38 del decreto Sblocca Italia già approvato alla Camera, si potrebbero aggiungere almeno altre 70 trivelle di cui almeno 20 sul canale di Sicilia e ben 6 davanti alle coste iblee . Questo è lo scenario che emerge sulla base dei dati pubblicati sul sito del ministero dello Sviluppo Economico. Un quadro allarmante che rischia di ipotecare seriamente il futuro delle coste e del mare italiano e delle attività economiche connesse – a partire dal turismo di qualità e dalla pesca sostenibile – con rischi di incidenti che non vale la pena di correre, a maggior ragione, considerando i quantitativi irrisori presenti nei fondali marini italiani.
Ma ha senso tutto questo gran fermento sui mari italiani? Serve almeno a ridurre la dipendenza energetica italiana dall’estero? Basta scorrere i dati sui consumi di petrolio e sulle riserve certe a mare per capire che non è assolutamente così.
Secondo le ultime stime del Ministero dello Sviluppo economico aggiornate a dicembre 2013, le scorte petrolifere a mare classificate come certe sono pari a 9,778 milioni di tonnellate che, ai consumi attuali, sarebbero sufficienti per il fabbisogno nazionale per solo 8 settimane. Di queste nel canale di Sicilia il petrolio certo è pari a 3,768 che ai consumi attuali sarebbero sufficienti per il fabbisogno nazionale per solo 22 giorni.
Nel frattempo in Italia il consumo di petrolio è diminuito, complice soprattutto la crisi economica, ma anche i primi effetti delle politiche di efficienza: secondo l’Unione Petrolifera nel 2013 il consumo di petrolio è stato di 59 milioni di tonnellate rispetto ai 711 del 2011 , e al diminuire dei consumi fa da contraltare un susseguirsi di richieste, concessioni e permessi per ricercare ed estrarre le risorse petrolifere ancora disponibili nei fondali marini.
Questi dati dimostrano l’assoluta insensatezza del rilancio delle attività estrattive previsto nella
nuova Strategia energetica nazionale prospettata dal governo Renzi con il decreto Sblocca Italia in cui uno dei pilastri sembra essere proprio la spinta verso nuove trivelle per creare 15 miliardi di euro di investimento e 25mila nuovi posti di lavoro. Un settore destinato ad esaurirsi in pochi anni, come sostenuto dallo stesso Ministero nel Rapporto annuale 2012 della sua Direzione Generale per le Risorse Minerarie ed Energetiche: «Il rapporto fra le sole riserve certe e la produzione annuale media degli ultimi cinque anni, indica uno scenario di sviluppo articolato in 7,2 anni per il gas e 14 per l’olio».
I favori ai petrolieri non si limitano solo al via libera alle trivelle bloccate due anni fa. A questo si aggiunge anche l’irrisorio incremento delle royalties, previsto e propagandato per supportare attività di salvaguardia del mare e di sicurezza delle operazioni offshore da parte degli enti competenti. Si passa infatti dall’attuale 4% al 7%, percentuali che fanno sorridere rispetto a quelle praticate nel resto del mondo dove oscillano tra il 20% e l’80%.
Estraendo tutto il petrolio nel mare siciliano nell’arco di trenta anni le compagnie petrolifere pagherebbero come royalty 125.000.000 di € , circa 4 milioni l’anno. Una miseria.
Si tratta di condizioni molto vantaggiose che ovviamente richiamano nel nostro Paese molte compagnie straniere. Delle 41 istanze per permessi di ricerca attualmente in valutazione,infatti, solo tre fanno capo a compagnie italiane (due ad Eni e una a Enel) mentre tutte le altre sono richieste provenienti da società straniere.
L’attuale governo, in continuità con quelli precedenti, sui temi energetici sta portando il nostro Paese in un vicolo cieco. Ha approvato nuovi decreti per il fotovoltaico e le altre rinnovabili elettriche riempiendo il settore di burocrazia e paletti inutili e mettendo in serio pericolo un settore
strategico per ridurre la dipendenza dall’estero, le emissioni di gas serra e inquinanti e per contribuire a far uscire il nostro Paese dalla crisi. E con ciò mettendo quasi sul lastrico una delle più importanti imprese locali operanti nel settore delle rinnovabili. Nel frattempo non perde occasioni per dimostrarsi fautore del passato energetico fondato sulle fonti fossili, come ha dimostrato sulle facilitazioni contenute nello Sblocca Italia per le vecchie richieste di trivellazioni di petrolio in mare ignorando l’allarme lanciato dall’ONU, ribadito con forza ieri, che chiede di ridurre del 40-70% le emissioni di CO2 entro il 2050 pena l’impossibilità di mantenere il riscaldamento globale sotto la sogli dei 2°C e conseguentemente mettere in pericolo tutti noi, i nostri figli e i nostri nipoti. L’interesse nazionale sta nel ridurre i consumi di petrolio, la dipendenza dall’estero, il costo di acquisto oltre all’inquinamento locale e globale. E nulla di tutto questo si vuole perseguire visto che in campo ci sono solo le trivellazioni di quel poco petrolio che abbiamo. Nulla c’e’ per l’efficienza (in particolare i trasporti) e quindi nessuna possibilità di pagare meno il petrolio.
Lo sviluppo economico e l’uscita dalla crisi passa per una strada diversa, quella fondata sullo sviluppo delle rinnovabili e di serie politiche di efficienza in tutti i settori – a partire dai trasporti
primi consumatori dei derivati del petrolio nel nostro Paese – che potrebbe portare nei prossimi anni i nuovi occupati a 250 mila unità. Ossia 10 volte i numeri ottenuti grazie alle nuove trivellazioni e soprattutto garantire uno sviluppo futuro, anche sul piano economico, sicuramente molto più sostenibile e duraturo dei soli 14 anni che ad oggi sono propagandati con la paradossale rincorsa allo scarsissimo oro nero made in Italy. Ma i problemi riguardanti le trivellazioni non finiscono qui. C’è tutta la partita dei rischi derivanti dai possibili incidenti. Malgrado le Società Petrolifere considerino quasi nulla la possibilità che nei nostri mari possa avvenire uno sversamento di prodotti petroliferi, si ritiene che tale eventualità non possa di certo venire annullata attraverso ottimistiche dichiarazioni che semmai fanno presumere una scarsa valutazione del problema da parte delle stesse. Nel rapporto tecnico stilato dall’Ispra (“Mappatura dei pericoli di incidente rilevante in Italia edizione 2013”), si fa notare che in Italia sono oltre 1100 gli impianti RIR, cioè gli impianti a Rischio di Incidente Rilevante. Ma nella mappatura che fa l’Ispra non vi è traccia delle piattaforme petrolifere off-shore . Il motivo è che il DLgs 238/2005 esclude le piattaforme off-shore dal rischio di incidente rilevante. Escludere tali impianti per Decreto dal rischio di incidente, non va certamente nella direzione di considerare che in Italia vi sia “una stringente normativa” in materia di sicurezza. Per tal motivo, nella maggior parte degli studi di VIA ( Valutazione di Impatto Ambientale) predisposti dalle Società Petrolifere, la tematica viene affrontata in modo “estremamente fiducioso”. Le tecniche di rimozione di petrolio sversato a mare descritte in tali studi consisterebbero essenzialmente nella rimozione meccanica dell’idrocarburo attraverso la posa in opera di barriere galleggianti (panne) e skimmer (attrezzatura in grado di raccogliere sostanze petrolifere di diverse viscosità sulla superficie dell’acqua). Buona parte degli studi SIA ( Studi di Impatto Ambientale ), ovviamente dimenticano che queste tecniche possono essere effettuate in condizioni di mare sostanzialmente calmo. Così come evidenziato nel “Piano di pronto intervento nazionale per la difesa da inquinamenti di idrocarburi o di altre sostanze nocive causati da incidenti marini” approvato con Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri il 04 Novembre 2010”, che definisce “inutile” l’intervento di rimozione meccanica attraverso l’utilizzo di metodi dinamici o statici con uno stato del mare con forza >2 ed “inefficace” l’utilizzo di panne galleggianti con uno stato del mare con forza > 2-3; condizioni marine che molto spesso vengono abbondantemente superate. Lo stesso Piano asserisce che le varie tecniche, pur combinate tra loro e nelle condizioni ideali di luce e di mare, consentono un recupero al massimo di non più del 30 % dell’idrocarburo sversato e che tale percentuale tende rapidamente a zero con il peggioramento delle condizioni meteo-marine. Vale la pena sottolineare che quanto sopra detto assume maggior rilevanza se si considera che gli impianti petroliferi sono più vulnerabili nella fase di ricerca e nelle prime fasi di produzione. Buona parte delle istanze richieste al Ministero riguardano attività di ricerca; l’eventuale fase di coltivazione sarà successiva.
Infine vale la pena ricordare che la questione della sicurezza delle attività estrattive offshore è al centro dell’attenzione della Comunità europea già dal 2010, anche in conseguenza all’incidente del Golfo del Messico che ha riaperto la riflessione su questi temi. Un percorso che ha portato il 10 giugno scorso all’approvazione della Direttiva 2013/30/UE sul rafforzamento delle condizioni di sicurezza ambientale delle operazioni in mare nel settore degli idrocarburi. La direttiva nasce da alcuni principi di riferimento tra cui quello che i gravi incidenti legati all’estrazione di idrocarburi in mare possono avere conseguenze gravi e irreversibili sull’ambiente marino e costiero. Un altro passaggio importante è l’inquadramento di tali attività nelle politiche di tutela e salvaguardia del mare per garantire il raggiungimento al 2020 del buono stato ambientale, come previsto dalla direttiva 2008/56/CE. Si tratta della direttiva che ha messo in campo la Strategia marina, con l’obiettivo di valutare l’impatto cumulativo di tutte le attività per una gestione integrata del sistema marino-costiero.La direttiva impone alle compagnie petrolifere di redigere un’accurata relazione sui grandi rischi e su eventuali incidenti che possono verificarsi, studio che deve essere ben illustrato nel progetto (cosa che in molti dei progetti presentati oggi non si verifica); richiede inoltre al Governo, in fase di rilascio delle autorizzazioni, di verificare se ci sono tutte le garanzie economiche da parte della società richiedente, per coprire i costi di un eventuale incidente durante le attività, e di applicare tutte le misure necessarie per individuare i responsabili del risarcimento in caso di gravi conseguenze ambientali fin dal rilascio dell’autorizzazione. Un ultimo punto importante è quello della partecipazione del pubblico, a cui la direttiva dedica un articolo, indicando come nel processo di autorizzazione venga tenuto in debito conto il parere dei cittadini, amministrazioni e enti dei territori interessati dalle richieste. Il testo deve essere recepito entro due anni dalla sua approvazione dagli stati membri e per gli impianti esistenti entrerà in vigore non prima di cinque anni, ma è importante che chiedere che fin da subito le disposizioni previste dalla norma siano considerate nel rilascio delle autorizzazioni sul mare italiano dal Governo e dai ministeri competenti, tenendo in dovuto conto le sue indicazioni per garantire tutti gli strumenti di tutela, informazione e corretta gestione delle attività estrattive offshore.

di Redazione03 Nov 2014 15:11
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