La relazione del segretario CGIL Peppe Scifo al convegno su Carlo Marx

Trovo particolarmente significativo il fatto che il mio intervento in questa importante sede fisica e culturale, soprattutto per il tema che trattiamo in questi giorni, e cioè l’attualità di Karl Marx, abbia nel titolo la disoccupazione e non il lavoro. Dico questo in riferimento al mio ruolo di dirigente sindacale. Disoccupazione e lavoro sono due elementi complementari nella elaborazione di Marx, anche se Marx non  usa quasi mai il termine moderno “disoccupazione” (Arbeitslosigkeit), ma utilizza l’espressione “esercito industriale di riserva”.

Nel Capitale Marx affronta diverse volte il problema della sovrappopolazione relativa, quindi la  disoccupazione, ed in particolare nel  capitolo sull’accumulazione originaria del capitale. Qui viene descritta l’origine della disoccupazione moderna come presupposto del sistema di produzione capitalistico, ossia , dove avviene la separazione del produttore dai mezzi di produzione. Il capitalismo, al momento della sua nascita, richiede la formazione di un proletariato composto da lavoratori salariati, “liberi” di entrare e uscire dal mercato del lavoro. Ovviamente è provocatorio l’utilizzo del termine libertà che qui si riferisce non alla volontà delle persone bensì ai meccanismi di produzione che si avvalgono di forza lavoro salariata nella misura necessaria a garantire l’accumulazione capitalistica.  Scrive Karl Marx (…) la cosiddetta accumulazione originaria non è altro che il processo storico di separazione di produttore e mezzi di produzione. Esso si manifesta come originaria perché costituisce la preistoria del capitale e del modo di produzione ad esso corrispondente [K. Marx, Opere complete. Il capitale].

Quindi la disoccupazione secondo Marx deriva dal fatto che una parte della forza lavoro non riesce a trovare un impiego, e questa circostanza, è strutturale soltanto se la forma prevalente della produzione è a basata sul lavoro salariato.

Capitalismo ed esercito industriale di riserva (la disoccupazione) vanno  di pari passo e lo sviluppo di tale modo di produzione, fondato sull’accumulazione  continua del capitale e sulla diffusione delle macchine, determina  dinamiche tali da rendere strutturale e crescente la disoccupazione di massa. Ma c’è anche un altro elemento da cui deriva la sovrappopolazione industriale, intesa come forza lavoro, che è l’evoluzione tecnologica; con l’introduzione delle macchine che determinano un incessante rinnovamento delle tecniche di produzione, che da un lato rendono più produttivi gli operai occupati, dall’altro rendono progressivamente superflui molti dei lavoratori che prima erano occupati. È questa la ragione per cui sin dalle origini del moderno sistema di fabbrica si afferma una conflittualità fra il lavoratore e le macchine, viste come nemiche della stabilità del posto di lavoro, e non solo. Possiamo dire che l’analisi del  rapporto tra evoluzione tecnologica e lavoro, oppure il rapporto tra uomo e macchina nella fabbrica  ci  riporta ad una questione di conflittualità che trascorre più di due secoli, nei quali a partire da Ned Ludd ci riporta ai giorni nostri con i braccialetti di Amazon, per citare un esempio concreto. Il tema della attuale fase di innovazione tecnologica, data dai processi di  digitalizzazione dei sistemi produttivi apre nuovi scenari in merito all’attualità dell’analisi marxista sulla disoccupazione. Non è un caso se i livelli di disoccupazione oggi sono altissimi nei Paesi definiti a capitalismo avanzato. Sono diversi i fattori che concorrono alla determinazione di questo dato:  secondo una moderna reinterpretazione la  disoccupazione non è solo nella circostanza di una mancata occupazione.  Gli economisti oggi intendono con “disoccupazione involontaria”, quella “zona grigia” costituita dal lavoro precario, intermittente o marginalizzato. Esiste una nuova metodologia in riferimento alla quantificazione del tasso disoccupazione in Europa, partendo dalle rilevazioni della  BCE e le percezioni degli interessati che non sono formalmente disoccupati ma che si ritengono in cerca di occupazione. Seguendo questo criterio il tasso di disoccupazione in Italia schizza al 18,5% circa il 6,8% in più e il numero dei disoccupati, il famoso esercito industriale di riserva, sale a 5,2 milioni di persone. Anche su questo aspetto Marx si è soffermato dicendo che   “La sovrappopolazione relativa esiste in tutte le sfumature possibili. Ne fa parte ogni lavoratore durante il periodo in cui è occupato a metà o non è occupato affatto”. Oggi guardando i dati sull’occupazione vediamo che negli anni è cresciuto a dismisura il numero di contratti part –time involontari. Disoccupazione  che comprende quello che noi definiamo  lavoro povero, compreso quello  “atipico” che in molti casi è frutto della combinazione di diversi fattori tra i quali indubbiamente lo sviluppo di nuove tecnologie soprattutto nel campo digitale.

Il rapporto tra esseri umani e macchine si è riproposto nella storia  in modi e forme diverse, conservando in ogni caso un’idea  di fondo che a Marx non sfuggì, e cioè,  il progresso tecnologico può essere un alleato dei lavoratori poiché  migliora la produttività e riduce il tempo di lavoro necessario a produrre ciò che serve alla vita, purché i suoi vantaggi vengano redistribuiti fra tutti i produttori e non solo fra i possessori del capitale. Come scrive Marx, “ci vogliono tempo ed esperienza affinché l’operaio apprenda a distinguere le macchine dal loro uso capitalistico e quindi a trasferire i suoi attacchi dal  mezzo materiale di produzione alla forma sociale del suo sfruttamento”. In riferimento al tema attuale della nuova rivoluzione digitale, da cui scaturisce l’idea dell’Industria 4.0, esistono diversi spunti di analisi per definire il rapporto tra tecnologia e lavoro umano che ripropongono in modo attuale le teorie di Karl Marx. Oggi la digitalizzazione irrompe negli scenari produttivi portando in se due tendenze che possono definirsi di segno opposto. Da un lato la positività del miglioramento del lavoro umano sempre meno esposto alla fatica fisica che potrebbe tendenzialmente orientarsi verso una riduzione generale dei tempi di lavoro. Dall’altro si introduce un elemento anch’esso dirompente che racchiude il lavoratore all’interno di un Panopticon i cui gesti sono osservabili istante dopo istante. Un controllo ovviamente non fine a se stesso, e neppure dettato da spinte dispotiche, ma finalizzato alla quantificazione della produttività individuale, che introduce un elementi nuovi nell’analisi del rapporto  tra l’uomo e la macchina; l’ uomo robotico, quindi lui stesso macchina. In questi ultimi anni la condizione del lavoro ha dovuto fare i conti con questi nuovi elementi di carattere umano, quali la fatica, lo stress, in relazione ai processi produttivi tecnologizzati, che riportano in senso attuale l’idea di Charlie Chaplin quando in Tempi Moderni rappresentava l’operaio inghiottito dagli ingranaggi delle macchine dentro la fabbrica. Paradossalmente questa immagine, o meglio questa sequenza, rimane ancora oggi l’unica espressione di arti visive che danno il senso del rapporto tra uomo e macchina all’interno delle fabbriche e dei siti produttivi. Paradossalmente nella società dell’immagine e della diffusione del video come linguaggio ormai accessibile a tutti, mancano le immagini del lavoro, di questi nuovi processi produttivi, degli uomini robot, dei nastri che dettano i tempi, della robotica che guida gli uomini in rapporto ormai capovolto. Di tutto ciò siamo quasi sempre all’oscuro, come se operasse una censura a monte. Per questo tutto ciò è paradossale, se si pensa all’era in cui viviamo, dove ogni segmento della nostra vita  privata e sociale viene trasmesso in forma di video.

La disoccupazione diventa quindi crescente nelle sue  diverse forme, e l’esercito di riserva di manodopera sempre a disposizione del capitale, avente sia la funzione di rendere sempre possibile un aumento della produzione, nei momenti espansivi del ciclo economico, serve anche a  tenere bassi i salari, grazie alla concorrenza fra lavoratori occupati e disoccupati: questi ultimi, pur di lavorare, sono quasi sempre disposti ad accettare salari più bassi. Seguendo questo ragionamento sulla competizione tra lavoratori entriamo nel tema di grande attualità, che rende ancora più attuale l’analisi di Marx e cioè quello sui flussi migratori che da alcuni decenni interessano i Paesi occidentali. I flussi migratori rappresentano un’ulteriore fattore di concorrenza fra i lavoratori e determinano di fatto la condizione di abbassamento dei salari. Come è accaduto nel corso della storia dell’età contemporanea, il peso della sovrappopolazione può essere alleggerito attraverso diversi rimedi; come i flussi migratori fra aree geografiche, il caso dell’Italia nel dopoguerra , o mediante la riduzione delle classi di età ammesse al lavoro, con l’innalzamento dell’obbligo scolastico o l’estensione dei sistemi pensionistici. L’attualità invece prefigura scenari opposti in particolare nel nostri Paese dove le politiche pensionistiche aggravano la condizione di disoccupazione, anche se è rilevante l’emigrazione verso Paesi europei e non solo.

Il 9 aprile 1870, Karl Marx scrisse una lunga lettera a Sigfrid Meyer e August Vogt, due dei suoi collaboratori negli Stati Uniti. In essa Marx toccava una serie di temi, ma il suo obiettivo principale era la “questione irlandese”, compresi gli effetti dell’immigrazione irlandese in Inghilterra. Questa discussione pare sia stata la più estesa trattazione di Marx sull’immigrazione che non rappresenta un’analisi completa, ma rimane interessante e come sempre puntuale. La sua osservazione rilevava come l’afflusso di immigrati irlandesi sottopagati in Inghilterra forzava verso il basso i salari dei lavoratori inglesi nativi.

Nella sua lettera del 1870, Marx accusava la politica inglese verso l’Irlanda di essere basata principalmente sugli interessi economici dei capitalisti industriali inglesi e dell’aristocrazia terriera. L’aristocrazia inglese e la borghesia, scriveva, hanno avuto “un interesse comune…a trasformare l’Irlanda in pura e semplice terra da pascolo che fornisce carne e lana ai prezzi piú bassi possibili per il mercato inglese. (…)  Ma la borghesia inglese aveva anche “interessi molto più importanti nella presente economia d’Irlanda” – l’ immigrazione forzata di lavoratori irlandesi in Inghilterra:

Attraverso la continua e crescente concentrazione dei contratti di affitto l’Irlanda fornisce il suo sovrappiù al mercato del lavoro inglese e in tal modo comprime i salari nonché la posizione materiale e morale della classe operaia inglese.

E ora la cosa più importante di tutte! Ogni centro industriale e commerciale in Inghilterra possiede ora una classe operaia divisa in due campi ostili, proletari inglesi e proletari irlandesi. L’operaio comune inglese odia l’operaio irlandese come un concorrente che comprime il livello di vita.

Questa trattazione dell’argomento da parte di Karl Marx indica ancora una volta la grandezza e l’attualità del  suo pensiero. Il tema affrontato in merito alla questione Irlandese ci consegna uno spaccato valido soprattutto oggi in Europa e negli Stati Uniti, dove i rispettivi dibattiti pubblici e la caratterizzazione dell’opinione pubblica è fortemente influenzata dalla questioni riguardanti i flussi migratori. L’esperienza americana, europea e soprattutto italiana ha visto nelle questioni riguardante i flussi migratori la ragione della crescita delle formazioni politiche  della destra, compresa quella xenofoba. Il tema principale è quello della disoccupazione come conseguenza della presenza di immigrati, così come la ritrazione del welfare e la insufficiente risposta pubblica all’emergenza abitativa. Si tratta di temi che quasi mai hanno una reale fondatezza scientifica, ma di sicuro rispondono a quella conflittualità all’interno dei ceti sociali subalterni, in contrapposizione all’idea dell’unità proletaria. L’aspetto della  relazione tra presenza di flussi migratori in entrata ed abbassamento dei livelli salariali come conseguenza di una competitività tra lavoratori è  maggiormente riscontrabile nel dibattito americano. Mentre in Europa, ed in Italia in particolare, la conflittualità si esprime nei confronti dei migranti in relazione alla disoccupazione e l’accesso al welfare.

Al di la delle percezioni e degli orientamenti dell’opinione pubblica la  competitività verso il basso nelle dinamiche salariali è riscontrabile in modo esplicito come conseguenza successiva all’allargamento della Unione Europea verso  l’Est. Si tratta di fenomeni non regolamentati, anzi che costituiscono quasi sempre violazioni rispetto agli ordinamenti vigenti. Il trattato di libera circolazione c ha prodotto l’immediata  mobilità di milioni di lavoratrici e lavoratori in tutti i Paesi dell’Europa occidentale con altrettante immediate conseguenze sulle di maniche salariali soprattutto in alcuni contesti. Cito il caso delle campagne del ragusano, in particolar modo della fascia trasformata dove alla fine degli anni ‘90 la presenza di lavoratori immigrati era costituita soprattutto da lavoratori magrebini, tunisini in netta prevalenza, le cui condizioni salariali erano pressoché di parità rispetto agli italiani. A partire dai primi anni del 2000 ed in particolare dopo il 2006 con il compimento del processo di allargamento ad est dell’Unione Europea si è trasformata la composizione “etnica” del bracciantato con la prevalenza di lavoratrici e lavoratori romeni e al tempo stesso si sono determinate dinamiche di abbassamento dei livelli salariali a 360°, cioè per i tunisini costretti ad accettare nuove condizioni peggiorative, e lo stesso per gli italiani. Non si è mai prodotto un livellamento salariale verso il basso  ma possiamo dire che si è determinato un abbassamento proporzionale per tutti i lavoratori.

Si tratta ovviamente di fenomeni di irregolarità diffusa, ma spesso questa irregolarità diventa funzionale ai sistemi grazie alla rinuncia da parte dello Stato di assolvere al proprio ruolo secondo quanto previsto dalla Costituzione frutto del suffragio universale.

 

 

 

 

di Redazione10 Mag 2018 17:05
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